I fatti di questo Natale mi hanno convinto a scrivere di una cazzata fatta da adolescente. Non l’ho mai raccontata. Non lo sapeva la mia famiglia d’origine. Non lo sapevano i miei figli, né il mio compagno. Me n’ero dimenticata. Ora ne voglio parlare. Perché? Ho letto tante, troppe sentenze in questi giorni. Tutti siamo stati ragazzi. Tutti abbiamo sbagliato, e spesso continuiamo a farlo. Se noi adulti parlassimo/ ascoltassimo con il cuore i nostri figli, i ragazzi che incontriamo, parlassimo con loro dei nostri incubi notturni, dei nostri gesti insensati… forse ci sarebbero meno “giochini del semaforo rosso”.
L’ episodio risale alla primavera fra i miei 15 e 16 anni. Avevo scelto di essere una liceale. Liceo Scientifico per l’esattezza. Avrei voluto frequentare il liceo artistico, ma a quel tempo mia madre lo reputava un “covo di sciagurati” e in ogni caso non capiva a fondo le mie aspirazioni – “sono cose da adolescenti, le aspirazioni, poi passano e serve altro”. La mia era una famiglia pragmatica. Suonavo il pianoforte e, per colmare il mio desiderio d’arte, fui spinta a suonare anche il violino, ritenuto in famiglia più onorevole del disegno e più tardi anche del teatro.
Avevo pochi amici. L’alzarmi presto, il viaggio in treno fino alla cittadina, le ore al liceo, al pomeriggio la scuola di musica, di nuovo in treno fino a casa e per finire lo studio: obiettivamente avevo poco tempo per frequentare amici. In ogni caso, avevo legato con alcuni i ragazzi. Con due in particolare: ora persone strutturate, uno medico, l’altro ricercatore in un importante istituto farmacologico..
Ma nel 1980 eravamo solo ragazzi di 15/ 16 anni. Stupidi e con la presunzione di avere il mondo in mano. Avevamo stabilito di non passare mai dal sottopassaggio, perché lo ritenevamo “scomodo”. Attraversavamo tutti i giorni sui binari. Non di una piccola stazione della tratta “BiellaSanPaolo“. Attraversavamo sui binari della stazione di Novara. Zaino in spalla, violino a tracolla, passo impacciato, ero sempre l’ultima. Il gradino che separava i binari dalla predellina era parecchio alto. Un giorno un fischio forte ed inaspettato del “Diretto a Domodossola” mi ghiacciò il sangue. Feci appena in tempo a salire sù, che il treno passò.
Me lo ricordo come se fosse ieri.
L’ho sognato spesso.
Avrei potuto morire. Avrei potuto restare menomata.
Il mio gesto avrebbe lanciato mia madre e la mia famiglia in un baratro, avrebbe messo nei guai il guidatore del treno.
Nulla di tutto questo. Non è successo.
Sono ancora viva. Sono stata fortunata.
Da allora ho solo usato i sottopassaggio, continuo ad avere paura degli attraversamenti, anche sulle strisce pedonali. Tutt’oggi dò la mano a chi è con me e mi lascio portare, che da sola spesso mi batte il cuore. Oltre allo shock c’è stato il dover elaborare la cazzata in silenzio☺️. I compagni di viaggio – oggi persone per bene e ieri figli di famiglie per bene – non li ho più frequentati. Neppure loro ne hanno mai parlato.
Meno fortunati furono un paio di amici, morti l’anno successivo in un’ incidente d’auto il martedì grasso, al termine di un carnevale particolarmente sereno e divertente.
Ed ora: Gaia, Camilla, Pietro.
Ragazzi con il mondo in mano.
Figli nostri.
Il senso della vita siete voi.
E per te che leggi: beato te se, camminando, sei sempre stato sulla retta via.