Diario

Sono ultima di tre figli. 

Quando nasco c’è l’odore del granoturco maturo. 

La Nonna governa la casa: cucina e fa il sapone. Non ci manca nulla. Siamo contadini. Si mangia tutti i giorni. Tre mucche nella stalla. A volte si uccide il maiale. Gli odori sono forti. Forte mio Padre. Forte mio Nonno. 

A tre anni decido di non parlare più. Non so perché. Ma non parlo più. Con nessuno. Per un tempo lunghissimo. Né per gioco, né per scherzo, né davanti a ricatti d’amore, o di ceffoni. Non parlo più.

Sono stata visitata da medici e “segnatrici di vermi”. Ho annusato della buona grappa, che “avrebbe portato via tutto il male”. In cambio di un ciao, mai proferito, mi sono state regalate caramelle, grissini, biscotti, qualche cioccolato, vitamine, uno sgradevole olio di fegato di merluzzo, supposte  e benedizioni.

Durante una visita medica hanno infilato un catetere nella mia uretra: forse pensando che avrei potuto emettere suoni da lì. Chissà! Io e mia madre ci siamo sempre domandate cosa abbia spinto quel Medico Luminare – “che Dio l’ abbia in Gloria” – ad infilare un catetere nell’ uretra di una bambina che non voleva parlare. Quel dolore, inaspettato e violento, è  ben archiviato nella mia memoria.

In ogni caso non ho più parlato per tre lunghi anni.  

Ma ho riso. Molto. In braccio a mia sorella bambina. Interi pomeriggi sul divano a ridere. Specchiandoci l’un l’altra con occhi grandi e generosi.

Con lei, inconsapevole traghettatrice, sono rimasta ancorata alla vita.

Dopo anni di silenzio, a cinque compiuti, vengo iscritta l’asilo. La maestra è mia zia: vent’anni al suo primo incarico. Sarà maestra per tutta la vita. Mi inserisce in tutte le scene dello spettacolo per la festa della mamma. Ed io non parlo. E per tutta la durata delle prove decido di non muovermi. Tenace.

Ma anche la zia lo è! Mi alza, mi sposta, parla al posto mio, con assoluta totale naturalezza sia per me che per gli altri bambini. 

Il debutto è uguale ad ogni debutto. 

Sono passati 50 anni ed ancora ricordo. 

Arrivano in tanti a vedere questa bimba silenziosa, la più minuta. Quella che in tasca ha più parole. 

La sala per vestirci, il chimono blu. Il rumore del pubblico. Il cuore che batte forte. Suoni e gesti che mi accompagneranno per la vita. 

La pacca  sul sederino e che mi spinge sul palco. 

Il mio sguardo su tutti.

Lunghi ed interminabili attimi. 

E faccio quello che devo fare e dico quel che devo dire.

Con voce forte e sicura. 

E tutti mi guardano. 

Ora il silenzio è il loro. 

E ridono.

E applaudono. 

E sento caldo. 

E sto bene.

Mi sono spesso chiesta che strada avrei percorso se non avessi incontrato una ventenne dotata di sana incoscienza.

Quella spinta e quell’ attimo lo ritrovo ogni giorno. Ridere è il mio mestiere.

Ora sono un fakiro. Lavoro in strada. Porto storie alla gente che ascolta. 

Il suono delle risate è il loro star bene. È importante che la gente si diverta, che sia comoda nel ruolo di pubblico, che rida di me e con me. Che trovi senso nelle parole che dico, che riconosca l’ironia, incongruenza fra il mio aspetto ed il mio pensiero.

In piedi sul mio baule, guardo la gente passare. 

Tutti hanno premura, qualcuno mi guarda. 

La fretta del nostro tempo riempie le giornate. 

Io sono ferma lì. E sorrido.

a tre anni, non parlo ma rido